Le industrie comprano certificati 'verdi'. I parchi li cedono. In mezzo, una selva di mediatori: alcuni sono veri ambientalisti, altri solo speculatori. In un mercato ancora senza regole né codice etico, spiega l'espresso.
Circola aria per 30 miliardi sulle piazze finanziarie d'Europa. Quotata in Borsa, venduta e comprata, oggetto di speculazione, giochi al rialzo e al ribasso, bolle e truffe: è il mercato dei 'carbon credit', certificati di credito di emissione di CO2, anidride carbonica. Figlio dei protocolli di Kyoto sull'ambiente, è segnato dagli stessi vizi capitali che hanno spedito sulle montagne russe il prezzo del petrolio e, Ratzinger insegna, quello dei generi alimentari affamando mezzo pianeta. Né i risultati sono migliori se le emissioni di CO2 sono addirittura aumentate del 10 per cento dal 1997, firma di Kyoto, e calate di appena l'1 per cento dalla direttiva 2003 che istituì il sistema di scambio di carbon credit nella Ue. Funziona così: chi inquina (le industrie, ma qualunque attività fino al singolo che prende un aereo) compra da chi pulisce (parchi, foreste, chiunque pianti un albero). In mezzo, tra domanda e offerta, si contano in Europa una sessantina di operatori, circa 250 nel mondo, da quelli con le migliori credenziali ambientaliste fino a spregiudicati broker di ogni fatta.
Così le grandi aziende dichiarano di volere sensibilizzare le giovani generazioni sui comportamenti eco sostenibili. Il caso dell’Eni, guidato dall’ad Paolo Scaroni
1 commento:
Citare la fonte, ovvero Roberto Di Caro de "L'Espresso" sarebbe stato corretto...
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