lunedì 29 settembre 2008

Il caso dei ghiacciai scomparsi

Il rapporto 2008 sulle montagne italiane conferma le conseguenze del riscaldamento globale: lo strato ghiacciato si sta riducendo ovunque. Lo spiega Panorama.

Sono sulle cime delle Alpi le prove più evidenti del riscaldamento globale sul nostro territorio. I dati sullo stato di salute dei ghiacciai nazionali, raccolti dal Comitato glaciologico italiano e in uscita a fine ottobre (che Panorama anticipa), confermano che quasi tutti i 200 ghiacciai sotto studio stanno arretrando a ritmo accelerato. Per i più piccoli significherà l’estinzione nel giro di qualche anno; per i più grandi, se le condizioni non muteranno, occorrerà attendere solo qualche decina di anni.
Il presidente del Comitato glaciologico, Claudio Smiraglia, spiega che i metodi da loro utilizzati sono due: il primo è quello delle variazioni frontali, che misura quanto un ghiacciaio è arretrato rispetto all’anno precedente; il secondo è il metodo della misura del bilancio di massa, cioè la variazione dello spessore del ghiaccio dalla fine di un’estate alla successiva.
A volte viene utilizzato anche un terzo metodo: il telerilevamento dal satellite. Un esperto di questo sistema, Francesco Rota Nodari, ricercatore del Cnr e del Servizio glaciologico lombardo, spiega che il suo vantaggio è fornire una visione dall’alto sia complessiva sia ripetitiva. A essere misurata è la variazione dell’area fra passaggi successivi del satellite con una risoluzione inferiore ai 30 metri per pixel.
La fase di crisi dei ghiacciai appare impressionante se osservata con ciascuno di questi metodi di rilevamento: «In quanto a spessore, da 20 anni la tendenza costante è la perdita media in un anno di un metro di ghiaccio» dice Smiraglia. «La variazione frontale annuale cambia invece da pochi metri ad alcune decine, che in casi particolari diventano un centinaio».
Molto dipende dalle dimensioni di un ghiacciaio: più grande è, maggiore è l’inerzia a fondersi. Dal momento che in Italia la maggior parte è piccola, in media decine di metri di spessore, non è un caso che si registri un grande numero di trasformazioni di ghiacciai veri e propri nei «glacionevati», cioè in esaurimento e privi di movimento. Piccoli ghiacciai già divenuti glacionevati sono diffusi in tutte le Alpi, in particolare nelle Dolomiti, nelle Alpi Giulie e nelle Marittime; sugli Appennini, anche il Calderone, nel Gran Sasso (il più a sud d’Europa) si è trasformato in un glacionevato.
Nelle Alpi occidentali perdiamo ogni anno circa 40 metri di lughezza. Si sono estinti il ghiacciaio della Porta in Valle Orco, il Galambra in Valsusa, mentre la lingua del Pré-de-Bar, in Val Ferret, è ormai coperta da detriti e pietre miste a ghiaccio nero. Questa è, in un certo senso, la fase finale della vita di un ghiacciaio, l’«estrema ratio» cui la natura ricorre per rallentare la fusione: la riduzione di spessore ghiacciato lascia maggiormente scoperte le pareti di roccia dalle quali cadono pietre e massi che ne ricoprono la superficie; si crea così una barriera al calore che rallentando la fusione permette una più lunga sopravvivenza. Questi fenomeni sono accompagnati anche dalla frammentazione nei ghiacciai più grandi, che tendono a separarsi in più tronconi, come è accaduto nella Brenva, ai piedi del Monte Bianco, pochi anni fa.
Ma sono in sofferenza tutti gli altri grandi ghiacciai italiani: Monte Rosa, Bernina, Ortles Cevedale, Adamello, Marmolada, Alpi Atesine. Inoltre, il permafrost, la parte del suolo alpino che rimane gelata tutto l’anno, sta fondendo (nel 2003 perfino ad altitudini di 4.600 metri).
Le conseguenze sono facili da immaginare. Se il Po non si è del tutto prosciugato in estati torride come quelle del 2003 lo si deve soprattutto alla presenza dei ghiacciai che hanno alimentato i bacini idroelettrici. Inoltre, lo scongelamento dei pendii provoca crolli e fratture che mettono a rischio intere regioni. Mark Lynas, giornalista scientifico del quotidiano inglese The Guardian, nel suo saggio Sei Gradi (appena uscito per Fazzi editore) scrive: «Alcune città, come Pontresina nella Svizzera orientale, hanno già cominciato a costruire dighe di terra di difesa contro le frane. Ma molte altre rimarranno indifese e impreparate, finché l’incubo non diventerà realtà e la morte non si abbatterà su di esse senza preavviso». Nonostante il tono apocalittico, c’è molto di vero in questa affermazione: quando il famoso glaciologo Wilfried Haeberli venne a sapere delle frane e dei disastri che più volte, nel 2003, ebbero luogo sul Cervino affermò: «Quella montagna si tiene insieme con il permafrost, è chiaro cosa sta succedendo».
Difficile dire come frenare questo fenomeno. La causa è alla radice: il riscaldamento globale causato dalle emissioni di origine antropica. Smiraglia, come presidente del Comitato glaciologico italiano, sta cercando di sperimentare in Alta Valtellina tecniche messe già in atto dagli svizzeri per difendere i ghiacciai usati per le piste di sci estivo: un telo di tessuto speciale che protegge neve e ghiaccio dall’energia solare. Sfortunatamente, i finanziamenti per le ricerche glaciologiche, già esigui, sono stati recentemente tagliati, ed è difficile continuare i lavori di monitoraggio. Problemi probabilmente giudicati di scarso interesse. Almeno fino a quando le conseguenze non saranno sotto gli occhi.

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