Salvatore Sardo, in occasione della presentazione della Eni Chair in Energy Markets (vd post "Energy Markets: una nuova cattedra in Bocconi in collaborazione con Eni", ha parlato dell'importanza della collaborazione con il mondo accademico e delle attività di ricerca e sviluppo del know-how
per la crescita del business nel settore oil & gas.
"Nel campo della ricerca e dello sviluppo - ha ricordato Salvatore Sardo - Eni possiede un portafoglio brevettuale complessivo di circa 8.000 brevetti e domande di brevetto,
che proteggono oltre 1.000 invenzioni, frutto delle attività di ricerca
svolte all’interno della società, sia in campo core sia nel settore
delle energie rinnovabili.
Su questi temi nel Centro Ricerche per le Energie non Convenzionali Eni-Donegani di Novara circa 150 tra ricercatori, tecnici e staff si
applicano - anche in collaborazione con Università e centri di ricerca
italiani, europei e statunitensi – e studiano nuove opportunità per
l'utilizzo su larga scala dell'energia solare e delle biomasse, che Eni ritiene rappresentino le fonti rinnovabili con maggiori potenzialità di utilizzo sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico."
Salvatore Sardo ha ricordato anche "Eni Award, che, con una dotazione annuale di 850.000 €, premia le più avanzate ricerche nei campi del migliore utilizzo delle fonti energetiche, della protezione ambientale e della valorizzazione delle energie rinnovabili."
Salvatore Sardo ha infine citato le nomerose collaborazioni di Eni con il mondo accademico, "per sviluppare un efficace network nazionale e internazionale con le Università di eccellenza".
"La maggior parte delle collaborazioni con il mondo accademico (complessivamente circa 400 tra Italia ed estero) riguarda progetti di ricerca per l’innovazione tecnologica nel settore oil & gas, l’ambiente e le energie rinnovabili."
Il testo integrale dell'intervento di Salvatore Sardo è scaricabile dal sito Eni.
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martedì 2 ottobre 2012
giovedì 15 marzo 2012
Modi per risparmiare sul riscaldamento: la caldaia a legna
Questa settimana parliamo di un'altra soluzione per riscaldare la casa risparmiando energia, specialmente nei luoghi isolati.
La soluzione è utilizzare le stufe a pellet, a legna o a mais, che hanno raggiunto un livello abbastanza elevato di efficienza e affidabilità, ed inoltre non producono fumi tossici, dato che bruciano solo combustibili naturali.
Le stufe a pellets, combustibile legnoso formato da segatura compressa, sono diventate molto affidabili con l'utilizzo dell'elettronica. Hanno il grande vantaggio rispetto alle tradizionali stufe a legna di poter dosare il combustibile a piacimento e quindi consentono un preciso controllo della temperatura.
Una sottocategoria delle stufe a pellets è quella delle stufe a mais o granoturco. Si tratta di stufe ecologiche il cui principale combustibile è il mais, ma che possono funzionare anche a pellets o a cippato come gusci di nocciole o mandorle. Il mais o granoturco è uno dei combustibili più potenti esistenti in natura: non inquinante, rinnovabile e di facile reperibilità, si può trasportare e immagazzinare facilmente. Ha un potere calorico di circa 6200 Kcal/kg (con umidita intorno al 15%).
Il mais come il pellets garantisce una combustione pulita, neutra, migliore dei combustibili di origine fossile come gasolio, olio combustibile, gas e carbone, i quali causano un aumento del contenuto di ossidi di carbonio e altre sostanze nocive nell'atmosfera. Il mais è quello normalissimo in grani, facilmente reperibile, il prezzo è tra i più bassi in fatto di combustibili.
La pulizia, inoltre, è facile, perché queste stufe sporcano poco.
La soluzione è utilizzare le stufe a pellet, a legna o a mais, che hanno raggiunto un livello abbastanza elevato di efficienza e affidabilità, ed inoltre non producono fumi tossici, dato che bruciano solo combustibili naturali.
Le stufe a pellets, combustibile legnoso formato da segatura compressa, sono diventate molto affidabili con l'utilizzo dell'elettronica. Hanno il grande vantaggio rispetto alle tradizionali stufe a legna di poter dosare il combustibile a piacimento e quindi consentono un preciso controllo della temperatura.
Una sottocategoria delle stufe a pellets è quella delle stufe a mais o granoturco. Si tratta di stufe ecologiche il cui principale combustibile è il mais, ma che possono funzionare anche a pellets o a cippato come gusci di nocciole o mandorle. Il mais o granoturco è uno dei combustibili più potenti esistenti in natura: non inquinante, rinnovabile e di facile reperibilità, si può trasportare e immagazzinare facilmente. Ha un potere calorico di circa 6200 Kcal/kg (con umidita intorno al 15%).
Il mais come il pellets garantisce una combustione pulita, neutra, migliore dei combustibili di origine fossile come gasolio, olio combustibile, gas e carbone, i quali causano un aumento del contenuto di ossidi di carbonio e altre sostanze nocive nell'atmosfera. Il mais è quello normalissimo in grani, facilmente reperibile, il prezzo è tra i più bassi in fatto di combustibili.
La pulizia, inoltre, è facile, perché queste stufe sporcano poco.
mercoledì 1 aprile 2009
Città del futuro, apre a Roma la fiera Ecopolis
Apre oggi alla nuova Fiera di Roma la prima edizione di Ecopolis una tre giorni dedicata al tema della città, dell'ambiente urbano e della sostenibilità.Promossa da Camera di commercio di Roma e Fiera Roma con il patronato della presidenza della Repubblica, fino a venerdì il salone inviterà a riflettere e ad approfondire le tematiche legate alla gestione ambientale delle città. In particolare, si farà il punto sullo stato dell'arte in sette settori strategici: energia, rifiuti, mobilità, acqua, natura urbana, urban design, salubrità ambientale. Trasversale sarà poi il tema della governance, imprescindibile se si pensa al ruolo della pianificazione strategica delle grandi aree metropolitane.Si partirà l'1 aprile con la presentazione del V Rapporto annuale sull'ambiente urbano, promosso dal Sistema delle agenzie per l'ambiente Ispra-Arpa-Apopa, cui seguirà nel pomeriggio della prima giornata il convegno «Città del futuro». Con alcune tra le voci più autorevoli del campo, tra cui Alejandro Gutierrez, progettista della prima città sostenibile al mondo, si affronterà il tema della costruzione di comunità a zero emissioni. La seconda giornata prenderà il via con il convegno «L'energia delle città», promosso con il contributo della regione Lazio, per fare il punto sul risparmio energico e l'utilizzo di energie rinnovabili (solare diretta, energia idrica, eolica ed energia derivante dalle biomasse), che oggi coprono solo il 10% del fabbisogno energetico mondiale. Giovedì pomeriggio il ricercatore Richard Pluntz, presenterà lo studio condotto per la Columbia University sul tema dei cambiamenti climatici e avvierà il dibattito sulle nuove emergenze, dal punto di vista sociale, architettonico, sanitario, che devono guidare la pianificazione urbana. Il 3 aprile, infine, l'attenzione si sposterà verso tematiche più strettamente economiche per analizzare quali opportunità e sfide si presentano alle imprese in una fase di transizione verso un'economia più sostenibile e come proprio la green economy possa diventare un motore di ripresa per il sistema industriale. Le grandi trasformazioni cui saranno chiamate le aree urbane nei prossimi anni per far fronte ai cambiamenti climatici vedranno, infatti, un sempre più diretto coinvolgimento di tutti quei soggetti economici e industriali che saranno in grado di assicurare alle amministrazioni metodi, processi e tecnologie innovativi e tra loro integrati. A questi appuntamenti si affiancheranno incontri e conferenze su argomenti più squisitamente tecnici come la bioedilizia, la mobilità sostenibile, il green rating, la gestione dei rifiuti, con esperti che faranno il punto su settori e tematiche specialistiche. «Lo sviluppo sostenibile», ha affermato presentando l'evento Lorenzo Tagliavanti, presidente della Camera di commercio Roma, «rappresenta per le nostre imprese una sfida imprescindibile e, al tempo stesso, una grande opportunità. Quando un'impresa sceglie di coniugare efficienza ed etica investe in valori intangibili in grado di assicurare un formidabile ritorno in termini di competitività. Ecopolis, oltre a contribuire in maniera forte allo sviluppo internazionale del nuovo polo fieristico, rappresenta per le aziende una grande opportunità di incontro-confronto con tutti i soggetti coinvolti nello sviluppo, in particolare con la pubblica amministrazione. E la collaborazione tra la nostra istituzione e Fiera di Roma su questo evento nasce proprio dalla volontà di creare un luogo di dibattito di alto livello su questi temi». «In un momento difficile come quello che l'economia attraversa», ha aggiunto il presidente di Fiera Roma, Roberto Bosi, «crediamo che le aziende abbiano bisogno di nuovi stimoli da cui ripartire e ci auguriamo che lo sviluppo sostenibile possa diventare un motore di ripresa per il sistema industriale». (da Italia Oggi)
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
mercoledì 25 marzo 2009
I cambiamenti climatici si studiano con le nanotech
C he cosa hanno in comune i ricercatori italiani e quelli svedesi? La risposta, nient'affatto scontata, è affidata a Lars Leijonborg, ministro per l'Istruzione e la Ricerca del Governo di Stoccolma, in visita ufficiale in Italia insieme ai Reali di Svezia.«Italia e Svezia- spiega Leijonborg, 59 anni, da due e mezzo al Governo - intendono investire insieme nella ricerca sui neutroni, nelle nanotecnologie, negli studi e l'esplorazione della regione artica per trarre informazioni utili sul cambiamento climatico ». Aree di studio comuni tra scienziati italiani e svedesi e che oggi saranno oggetto di una dichiarazione congiunta tra Leijonborg e il ministro Mariastella Gelmini, nel corso del Forum Italia-Svezia organizzato da Confindustria.Italia e Svezia svilupperanno programmi congiunti?I due Paesi già collaborano,al di là dell'esistenza di accordi formali. Il progetto più concreto su cui lavoreremo insieme riguarda lo sviluppo di nuovi materiali attraverso la cosiddetta "spallazione" dei neutroni (è il processo che avviene quando particelle ad alta energia impattano nuclei di atomi producendo un flusso di neutroni, poi impiegati per produrre materiali artificiali, ndr). Inoltre esistono scienziati italiani molto competenti nello studio del Polo Nord e dei cambiamenti climatici, con i quali intensificheremo la partnership. Altri campi che rientreranno nell'accordo con il ministro Gelmini sono le nanotecnologie, l'energia sostenibile, l'alimentazione e la pesca.Investimenti ancora scarsi e legami carenti tra aziende e Università: sulla ricerca l'Italia cerca ancora un modello. Qualè l'esperienza svedese?Possiamo dire di essere tra i vertici a livello mondiale per spese dedicate alla ricerca in rapporto al Pil. L'Agenda di Lisbona poneva come obiettivo il 3%, con un punto di derivazione pubblica e un punto dai privati. La Svezia si posiziona sul 4%, con 3 punti di investimento privato. Per un ministro come me, il vantaggio è avere in casa dei giganti come Ericsson nelle telecomunicazioni e AstraZeneca nella farmaceutica, ciascuno dei quali con la sua ricerca copre quasi l'1% del Pil. Un altro punto di Pil arriva da Volvo e da altre grandi aziende private. Per quanto riguarda poi il rapporto tra le imprese e l'università, direi che il punto di vista di un ministro della Ricerca è molto parziale. Il tema decisivo è un altro...A che cosa si riferisce?Al clima e alle condizioni del fare impresa. Se manca questo, la ricerca resta per forza di cose in laboratorio. Se sei un ricercatore e sviluppi un'invenzione che potrebbe costituire un vero breakthrough tecnologico nel campo della medicina, devi essere messo in condizione di commercializzare la tua idea. Il Governo svedese, a questo scopo, attraverso degli Innovation center creati nelle università favorisce la diffusione del capitale di rischio nella fasi di "very early stage" e fornisce assistenza per passare alla commercializzazione.Quali criteri vengono seguiti nella distribuzione delle risorse pubbliche?Innanzitutto quello del merito. La quantità dei fondi che attribuiamo alle singole università è vincolata alla valutazione dei risultati conseguiti nell'anno precedente. Sui contenuti siamo fortemente orientati alla ricerca di base, sostanzialmente libera, guidata dal mercato, ma senza deviare eccessivamente dalle aree che secondo i contribuenti e la politica saranno strategiche nei prossimi anni: medicina, clima e tecnologie al loro servizio. Ci sono alcuni grandi obiettivi scientifici ai quali, non solo la Svezia ma tutta l'Europa, deve puntare: le grandi battaglie della medicina contro il cancro, l'Alzheimer, l'Aids; l'avvento su larga scala dell'auto elettrica; i sistemi per la cattura del carbonio.La Svezia ha appena compiuto una clamorosa retromarcia tornando al nucleare. Per quale motivo?La sospensione decisa nel 1998 non è stata risolutiva e ha lasciato grandi divisioni nel Paese. Adesso siamo arrivati a una sorta di storico compromesso: i reattori esistenti potranno essere sostituiti da nuovi impianti e di pari passo si svilupperanno sia la ricerca sul nucleare di quarta generazione sia quella sulle fonti rinnovabili come l'eolico, le biomasse, il solare.A giugno in Italia si svolgerà il G8 della scienza. Da osservatore esterno, la Svezia ha dei suggerimenti?A mio parere bisogna dare priorità agli obiettivi che ho appena indicato. Ma soprattutto credo che anche in questa fase di crisi internazionale occorra aumentare gli investimenti in ricerca seguendo la strada tracciata negli Stati Uniti da Barack Obama. In Europa solo una cifra intorno al 6% degli investimenti pubblici per la ricerca è finanziata da Bruxelles: troppo poco. Oggi ho incontrato anche il vostro Presidente Giorgio Napolitano, che mi è parso molto sensibile su questo tema. (Dal Sole 24 Ore)
L’energia responsabile secondo Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni
L’energia responsabile secondo Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni
mercoledì 18 marzo 2009
Centrali a biomasse? Non nel mio cortile
"Le centrali a biomasse sono tra gli impianti più innocui sulla Terra. Per produrre elettricità bruciano pezzi di alberi a crescita rapida, come i pioppi, e scarti di potature: tutta roba pulita e rinnovabile. Per i contadini sarebbero un affare, perché trasformano in guadagno il costo dello smaltimento dei residui. Anche per gli abitanti dei comuni interessati potrebbero essere un’opportunità, visto che significano posti di lavoro e spesso sconti sulla bolletta della luce. Eppure, in Italia perfino le piccole e inoffensive centrali a legna sono combattute come il diavolo. Da Atena Lucana, in provincia di Salerno, a Zinasco, nel Pavese, sono 52 gli impianti elettrici di quel tipo contestati. È un fenomeno nuovo e sconcertante perché le centrali a biomasse, così come le altre a energia rinnovabile (idroelettriche, solari, geotermiche ed eoliche), fino a non molto tempo fa erano considerate virtuose e non solo accettabili ma addirittura richieste, quindi fornite di uno speciale lasciapassare ecologistico, una specie di bollino verde.
Da qualche tempo, invece, gruppi di talebani della «difesa del territorio», spesso minuscoli ma bellicosi, hanno cominciato a trattare da nemiche perfino le energie rinnovabili. Riuscendo a bloccarle, spesso trovando alleati tra politici e amministratori locali, sovente agendo anche a dispetto di questi ultimi, oltre che contro gli ambientalisti più ragionevoli e la maggioranza della popolazione, in genere estranea alle proteste o proprio contraria. Il cambiamento di approccio è stato colto e censito dal Nimby Forum (”Not in my backyard” significa: non nel mio cortile), organizzazione che da anni tiene sotto osservazione il delicato rapporto tra le comunità da una parte e dall’altra le istituzioni, le aziende e gli enti che promuovono la costruzione delle infrastrutture. Nel rapporto 2008, che viene presentato ufficialmente giovedì 12 marzo e che Panorama ha letto in anteprima, il Nimby Forum ha individuato 67 impianti a energie rinnovabili contestati in Italia, un grosso numero. E una tendenza preoccupante, proprio nel momento in cui si torna a parlare di energia atomica: “L’Italia si avvia verso il più grande caso Nimby mai osservato, quello sul nucleare” prevede Alessandro Beulcke, presidente del Forum. (Da panorama)
Da qualche tempo, invece, gruppi di talebani della «difesa del territorio», spesso minuscoli ma bellicosi, hanno cominciato a trattare da nemiche perfino le energie rinnovabili. Riuscendo a bloccarle, spesso trovando alleati tra politici e amministratori locali, sovente agendo anche a dispetto di questi ultimi, oltre che contro gli ambientalisti più ragionevoli e la maggioranza della popolazione, in genere estranea alle proteste o proprio contraria. Il cambiamento di approccio è stato colto e censito dal Nimby Forum (”Not in my backyard” significa: non nel mio cortile), organizzazione che da anni tiene sotto osservazione il delicato rapporto tra le comunità da una parte e dall’altra le istituzioni, le aziende e gli enti che promuovono la costruzione delle infrastrutture. Nel rapporto 2008, che viene presentato ufficialmente giovedì 12 marzo e che Panorama ha letto in anteprima, il Nimby Forum ha individuato 67 impianti a energie rinnovabili contestati in Italia, un grosso numero. E una tendenza preoccupante, proprio nel momento in cui si torna a parlare di energia atomica: “L’Italia si avvia verso il più grande caso Nimby mai osservato, quello sul nucleare” prevede Alessandro Beulcke, presidente del Forum. (Da panorama)
venerdì 13 marzo 2009
Un'antica tecnologia che potrebbe salvare il pianeta
In questo preciso momento, migliaia di scienziati – e anche migliaia di imprenditori – stanno scrutando nel futuro per cercare migliaia di soluzioni diverse ai problemi energetici e climatici del mondo. Nuove generazioni di tecnologia solare, per mietere meglio i fotoni che piovono dalla nostra stella. Il bersaglio sfuggente della fusione nucleare, sulla carta più sicura e potente della fissione che usiamo oggi. Addirittura giganteschi ombrelli da lanciare in orbita, per abbassare la temperatura qualora gli equilibri del clima rischiassero un giorno di andare fuori controllo.Eppure, una soluzione grandiosa – facile, vantaggiosa e perfino economica – potrebbe nascere scrutando nel passato.La leggenda di Eldorado è sopravvissuta per un paio di secoli, fino a morire per mancanza di prove. Nel 1542, il conquistador Francisco De Orellana si avventura nel cuore dell'Amazzonia in cerca di oro e – al ritorno – racconta di aver visto una fiorente civiltà nel cuore della foresta pluviale: villaggi, fattorie, mura fortificate. Si alimenta così il mito di un re dorato che governa una città ricca di riserve auree, che per anni seminerà illusioni e morte fra le fila dell'esercito spagnolo. In verità, nonostante la foresta amazzonica appaia come un'icona di fertilità, la sua terra giallastra era tutt'altro che adatta, a ospitare una civiltà popolosa e quindi ben nutrita: ancora oggi, gli autoctoni sono soliti bruciare pezzi di foresta, nel disperato tentativo di renderla fertile per un raccolto o due. Dopodiché, sono costretti – facendo male all'Amazzonia e all'atmosfera del mondo intero – a spostarsi e a ricominciare daccapo.Nonostante ciò, de Orellana potrebbe aver detto il vero. Ci sono punti del Brasile (e della Colombia), dove la terra non è gialla: in portoghese la chiamano terra preta, terra nera. Non casualmente, ma in appezzamenti regolari, alcuni grandi decine di ettari, segno inequivocabile di una fabbricazione umana. E lì, come hanno sperimentato ricercatori della Cornell University, la resa del grano migliora fino all'880%. Questo Eldorado alimentare, secondo gli archeologi, risale a civiltà prosperate in Sudamerica fra i 2.500 ai 6mila anni fa. Le quali, avevano inventato una tecnologia stranota alle civiltà contadine da questa parte dell'Atlantico, applicandola diversamente.Si chiama pirolisi. È la carbonizzazione di qualsiasi biomassa in assenza di ossigeno. Per togliere l'aria, i carbonai usavano pietre e di terra. Le civiltà precolombiane, chissà. Noi del Ventunesimo secolo, come si conviene, ci stiamo preparando a impiegare tecnologie più efficienti e prodotte su scala industriale. Perché dentro al carbone vegetale che esce dalla pirolisi – oggi chiamato biochar, dall'inglese bio-charcoal, carbone biologico – c'è un miracoloso Eldorado di opportunità.Primo: la pirolisi produce un gas, combustibile, rinnovabile e inesauribile.La sola potatura degli ulivi pugliesi produce 700mila tonnellate di biomassa, ogni anno. Aggiungiamo gli scarti dell'industria alimentare e, con il pirolizzatore giusto – come quelli da decine di megawatt che arriveranno presto sul mercato – si potrebbe ottenere energia termica, convertibile in elettricità, e prodotta su scala locale. Certo non abbastanza a rendere l'Italia energeticamente indipendente, ma un po' meno dipendente,sì.Il secondo vantaggio è che il sottoprodotto della pirolisi,il biochar –come ci dice la lezione che viene dall'antica Amazzonia – non è uno scarto, ma una risorsa. Se distribuito nei campi, fertilizza il terreno; ritiene acqua fino a 4-5 volte il suo peso e richiede meno irrigazioni; nel caso delle risaie, non solo fertilizza, ma trattiene le naturali emissioni di metano, un potente gas-serra. E qui, al punto numero tre, arriva il bello. Il biochar potrebbe contribuire a cambiare la matematica del cambiamento climatico. Quando scaviamo il carbone fossile e lo bruciamo per ottenere elettricità, addizioniamo carbonio, spostandolo dalle viscere della terra all'atmosfera. Con il biochar accade il contrario: si fanno le sottrazioni. Tutte le piante, "mangiano" i fotoni dal sole e l'anidride carbonica dall'atmosfera. Al 50% sono fatte di carbonio e, con la pirolisi, il 90% di questo carbonio resta nel biochar. Non per un anno o due, ma per secoli. O forse per millenni, a giudicare dalla composizione della terra preta.«Se tutti gli scarti agricoli venissero ridotti in biochar e distribuiti nei campi – osserva Franco Miglietta, ricercatore del Cnr e co-fondatore dell'Associazione Italiana Biochar – il Paese ridurrebbe le sue emissioni di CO2, ben di più di quel che il Protocollo di Kyoto gli chieda».Il biochar è un Eldorado. (Dal Sole 24 Ore)
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
giovedì 5 febbraio 2009
Tutta l'energia che ci serve, contro i cambiamenti climatici
A Candiolo è nato un impianto di biogas che riesce ad utilizzare gli scarti dell'agricoltura, racconta Il Sole 24 Ore
Ridurre l'uso dei combustibili fossili e ridurre le emissioni di gas serra per far fronte al cambiamento climatico: sono questi gli imperativi delle politiche europee per un'energia sicura, competitiva e sostenibile. Alla luce della grave crisi che si abbattuta sull'economia mondiale una nuova spinta alla crescita ed alla libera concorrenza dev'essere sempre maggiormente ispirata dalla luce nuova siglata “green economy”. Sfruttiamo ciò che è possibile, senza attingere a riserve di greggio, caro e molto inquinante; sembra questa la nuova linea cui i governi puntano.Una leva formidabile, specie in Italia territorio agricolo per eccellenza, è data dal trattamento dei ri*uti organici in impianti di compostaggio integrati a impianti di digestione anaerobica. Tale gestione ha una potenzialità stimata di 8 miliardi di metri cubi di metano/anno pari a un decimo circa della domanda di gas in Italia (83 Gm3 nel 2007). Attualmente questa risorsa energetica viene quasi completamente inutilizzata o sprecata. E' infatti emerso che nel 2020 sarà sostanzialmente impossibile raggiungere l'obiettivo europeo di produrre il 20% di energia da fonti rinnovabili.Nello scenario più rialzista le rinnovabili nuove (biocarburanti, eolico, solare) non andranno oltre 0,6 miliardi tep (tonnellate equivalenti petrolio), a livello globale, nel 2020, contro una domanda di 15 miliardi di tep.Qualcosa, però, si sta muovendo, soprattutto in Europa, che mantiene il primato nel mondo riguardo alla potenza installata da fonti energetiche rinnovabili, davanti alla Cina, agli Stati Uniti e all'India. Per il solo comparto eolico, settore in cui l'Italia sconta un forte ritardo, la Germania detiene il primato nel mondo con oltre 15 mila Mw prodotti.Nei prossimi anni, in base ad un'analisi di Nomisma energia, si prevede, nel nostro Paese, un incremento della produzione di energia elettrica del 45,7%, sommando tutte le fonti: eolico, biomasse, fotovoltaico, idrologico, ri*uti solidi urbani 1,1%. Un buon esempio è l' impianto di produzione di biogas realizzato a Candiolo, in provincia di Torino, dalla Cooperativa Speranza, inaugurato il 28 giugno lungo la strada statale 23. La struttura utilizza, in gran parte, sottoprodotti aziendali quali letame e liquami, e oltre ad essi, verranno impiegati stocchi di mais, erba silos e trinciato.
Ridurre l'uso dei combustibili fossili e ridurre le emissioni di gas serra per far fronte al cambiamento climatico: sono questi gli imperativi delle politiche europee per un'energia sicura, competitiva e sostenibile. Alla luce della grave crisi che si abbattuta sull'economia mondiale una nuova spinta alla crescita ed alla libera concorrenza dev'essere sempre maggiormente ispirata dalla luce nuova siglata “green economy”. Sfruttiamo ciò che è possibile, senza attingere a riserve di greggio, caro e molto inquinante; sembra questa la nuova linea cui i governi puntano.Una leva formidabile, specie in Italia territorio agricolo per eccellenza, è data dal trattamento dei ri*uti organici in impianti di compostaggio integrati a impianti di digestione anaerobica. Tale gestione ha una potenzialità stimata di 8 miliardi di metri cubi di metano/anno pari a un decimo circa della domanda di gas in Italia (83 Gm3 nel 2007). Attualmente questa risorsa energetica viene quasi completamente inutilizzata o sprecata. E' infatti emerso che nel 2020 sarà sostanzialmente impossibile raggiungere l'obiettivo europeo di produrre il 20% di energia da fonti rinnovabili.Nello scenario più rialzista le rinnovabili nuove (biocarburanti, eolico, solare) non andranno oltre 0,6 miliardi tep (tonnellate equivalenti petrolio), a livello globale, nel 2020, contro una domanda di 15 miliardi di tep.Qualcosa, però, si sta muovendo, soprattutto in Europa, che mantiene il primato nel mondo riguardo alla potenza installata da fonti energetiche rinnovabili, davanti alla Cina, agli Stati Uniti e all'India. Per il solo comparto eolico, settore in cui l'Italia sconta un forte ritardo, la Germania detiene il primato nel mondo con oltre 15 mila Mw prodotti.Nei prossimi anni, in base ad un'analisi di Nomisma energia, si prevede, nel nostro Paese, un incremento della produzione di energia elettrica del 45,7%, sommando tutte le fonti: eolico, biomasse, fotovoltaico, idrologico, ri*uti solidi urbani 1,1%. Un buon esempio è l' impianto di produzione di biogas realizzato a Candiolo, in provincia di Torino, dalla Cooperativa Speranza, inaugurato il 28 giugno lungo la strada statale 23. La struttura utilizza, in gran parte, sottoprodotti aziendali quali letame e liquami, e oltre ad essi, verranno impiegati stocchi di mais, erba silos e trinciato.
venerdì 16 gennaio 2009
Una torre anti Co2 nella giungla
Clima e tecnologia Saranno italiani i primi dati sul ruolo degli ecosistemi africani contro l’effetto serra. A produrli è una struttura che, nella foresta del Ghana, misura l’anidride carbonica assorbita. Panorama è andato tra i ricercatori, che anticipano qui alcuni risultati.
In Africa, ad alcune centinaia di chilometri a ovest di Accra, capitale del Ghana, sorge una sterminata foresta chiamata Ankasa. Le piante si abbarbicano le une sulle altre in una lotta disperata per conquistare la luce, di quando in quando le loro alte chiome vengono agitate da branchi di scimmie rumorose. Verso sud, viaggiando su una larga strada rossastra che taglia la foresta, il grigio-azzurro dell’oceano appare all’improvviso, appena intravisto tra gruppi di palme piegate dal vento.La linea dell’Equatore corre poco più in là. Gira intorno al globo intersecando tutte le grandi foreste tropicali: Sumatra, Borneo e Nuova Guinea, e poi l’Amazzonia fino a raggiungere, in Africa, il Congo e ripassare proprio da lì, poco a sud della costa africana occidentale. Una fascia di foresta vergine che, per l’enorme quantità di biomassa, rappresenta una sorta di contenitore dell’anidride carbonica emessa dall’uomo. Conoscere il suo contributo alla quantità totale assorbita in un anno dalla biosfera potrebbe dirci quanto tempo abbiamo a disposizione prima che in atmosfera vengano superate le 450 parti di CO2 per milione, una soglia oltre la quale forse non potremmo più fare molto per scongiurare sconvolgimenti su scala globale.Manca però una serie di dati: il ruolo degli ecosistemi africani è tuttora un mistero. Nella foresta di Ankasa si va per questo. Da Accra ci vogliono almeno sei ore di strada sconnessa e buia. Non c’è illuminazione, solo un cielo stellato. La spedizione è guidata da Riccardo Valentini, professore dell’Università della Tuscia, uno dei massimi esperti al mondo del bilancio del carbonio; con lui tre ricercatori italiani, Paolo Stefani, Antonio Bombelli ed Elisa Grieco, una guida ghanese, Justice John Mensah, e due dottorandi dell’University of Cape Coast (Ghana).La meta del viaggio è una torre di 62 metri nel mezzo della foresta vergine, costruita dal gruppo di Valentini e alta a tal punto da raccogliere e quantificare il «respiro» delle piante sottostanti: durante il giorno gli alberi fotosintetizzano, cioè trasformano, con l’aiuto del sole e della clorofilla, anidride carbonica e acqua in zuccheri e ossigeno; in più, nell’arco delle 24 ore respirano, ossia combinano zucchero e ossigeno per dare vapore acqueo e anidride carbonica. Uno strumento in cima alla torre misura proprio il flusso netto di carbonio in entrata.La stazione fa parte di una rete di una ventina di altri punti di osservazione che coprono gli ecosistemi africani più rappresentativi, dalla savana alla foresta tropicale. L’intero progetto si chiama CarboAfrica: coordinato dai ricercatori dell’Università della Tuscia con il supporto del ministero dell’Ambiente, è stato finanziato con 2,8 milioni di euro dalla Commissione europea per il periodo 2006-2009 e coinvolge 15 organizzazioni internazionali. La concorrenza per ottenere questi risultati è spietata. Sembra che l’Università di Oxford stia per alzare un’altra torre in una zona limitrofa, ma due anni di lavoro e conoscenza del territorio appaiono un sicuro vantaggio per i ricercatori italiani. Il loro progetto contribuirà alle attuali politiche europee di cooperazione internazionale e favorirà lo sviluppo sostenibile dei paesi dell’Africa subsahariana. Non poco. Tanto che il Wwf ha indicato CarboAfrica come il progetto di ricerca più importante del 2009: sono dati necessari in vista di importanti vertici, quali quello di Copenaghen a fine 2009.L’arrivo è a notte fonda. La foresta non si vede, ma la si può ascoltare. Un frastuono di versi di animali che fa pensare alle origini dell’uomo, quando eravamo una specie fra le tante, impaurita e minacciata da animali feroci. Il giorno dopo, dalla torre, la foresta appare come una sterminata macchia verde che si perde all’orizzonte interrotta da zone di colori sgargianti. Sono le infiorescenze delle specie che in quel particolare periodo hanno la loro «primavera».Di fronte ai display degli strumenti, Valentini spiega: «Dalle prime misure emerge un fatto sorprendente. Questa foresta, se paragonata a quella amazzonica, sembra assorbire molto di più, dal doppio al quadruplo. Se i dati fossero confermati, vorrebbe dire che le foreste africane, sebbene meno estese, fanno un lavoro prezioso contro l’effetto serra».Senza contare il carbonio già immagazzinato in biomassa. «Come le altre foreste tropicali, quelle africane contengono 300 tonnellate di carbonio per ettaro» aggiunge Valentini. «Quindi, sommando tutti i dati, vuol dire che la sola deforestazione delle zone tropicali contribuisce a più del 20 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, dato paragonabile alle emissioni dovute ai combustibili fossili. Dovrebbe farci riflettere in vista di grandi appuntamenti come il vertice di Copenaghen. Con una buona politica forestale possiamo fare di più, molto di più».
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
In Africa, ad alcune centinaia di chilometri a ovest di Accra, capitale del Ghana, sorge una sterminata foresta chiamata Ankasa. Le piante si abbarbicano le une sulle altre in una lotta disperata per conquistare la luce, di quando in quando le loro alte chiome vengono agitate da branchi di scimmie rumorose. Verso sud, viaggiando su una larga strada rossastra che taglia la foresta, il grigio-azzurro dell’oceano appare all’improvviso, appena intravisto tra gruppi di palme piegate dal vento.La linea dell’Equatore corre poco più in là. Gira intorno al globo intersecando tutte le grandi foreste tropicali: Sumatra, Borneo e Nuova Guinea, e poi l’Amazzonia fino a raggiungere, in Africa, il Congo e ripassare proprio da lì, poco a sud della costa africana occidentale. Una fascia di foresta vergine che, per l’enorme quantità di biomassa, rappresenta una sorta di contenitore dell’anidride carbonica emessa dall’uomo. Conoscere il suo contributo alla quantità totale assorbita in un anno dalla biosfera potrebbe dirci quanto tempo abbiamo a disposizione prima che in atmosfera vengano superate le 450 parti di CO2 per milione, una soglia oltre la quale forse non potremmo più fare molto per scongiurare sconvolgimenti su scala globale.Manca però una serie di dati: il ruolo degli ecosistemi africani è tuttora un mistero. Nella foresta di Ankasa si va per questo. Da Accra ci vogliono almeno sei ore di strada sconnessa e buia. Non c’è illuminazione, solo un cielo stellato. La spedizione è guidata da Riccardo Valentini, professore dell’Università della Tuscia, uno dei massimi esperti al mondo del bilancio del carbonio; con lui tre ricercatori italiani, Paolo Stefani, Antonio Bombelli ed Elisa Grieco, una guida ghanese, Justice John Mensah, e due dottorandi dell’University of Cape Coast (Ghana).La meta del viaggio è una torre di 62 metri nel mezzo della foresta vergine, costruita dal gruppo di Valentini e alta a tal punto da raccogliere e quantificare il «respiro» delle piante sottostanti: durante il giorno gli alberi fotosintetizzano, cioè trasformano, con l’aiuto del sole e della clorofilla, anidride carbonica e acqua in zuccheri e ossigeno; in più, nell’arco delle 24 ore respirano, ossia combinano zucchero e ossigeno per dare vapore acqueo e anidride carbonica. Uno strumento in cima alla torre misura proprio il flusso netto di carbonio in entrata.La stazione fa parte di una rete di una ventina di altri punti di osservazione che coprono gli ecosistemi africani più rappresentativi, dalla savana alla foresta tropicale. L’intero progetto si chiama CarboAfrica: coordinato dai ricercatori dell’Università della Tuscia con il supporto del ministero dell’Ambiente, è stato finanziato con 2,8 milioni di euro dalla Commissione europea per il periodo 2006-2009 e coinvolge 15 organizzazioni internazionali. La concorrenza per ottenere questi risultati è spietata. Sembra che l’Università di Oxford stia per alzare un’altra torre in una zona limitrofa, ma due anni di lavoro e conoscenza del territorio appaiono un sicuro vantaggio per i ricercatori italiani. Il loro progetto contribuirà alle attuali politiche europee di cooperazione internazionale e favorirà lo sviluppo sostenibile dei paesi dell’Africa subsahariana. Non poco. Tanto che il Wwf ha indicato CarboAfrica come il progetto di ricerca più importante del 2009: sono dati necessari in vista di importanti vertici, quali quello di Copenaghen a fine 2009.L’arrivo è a notte fonda. La foresta non si vede, ma la si può ascoltare. Un frastuono di versi di animali che fa pensare alle origini dell’uomo, quando eravamo una specie fra le tante, impaurita e minacciata da animali feroci. Il giorno dopo, dalla torre, la foresta appare come una sterminata macchia verde che si perde all’orizzonte interrotta da zone di colori sgargianti. Sono le infiorescenze delle specie che in quel particolare periodo hanno la loro «primavera».Di fronte ai display degli strumenti, Valentini spiega: «Dalle prime misure emerge un fatto sorprendente. Questa foresta, se paragonata a quella amazzonica, sembra assorbire molto di più, dal doppio al quadruplo. Se i dati fossero confermati, vorrebbe dire che le foreste africane, sebbene meno estese, fanno un lavoro prezioso contro l’effetto serra».Senza contare il carbonio già immagazzinato in biomassa. «Come le altre foreste tropicali, quelle africane contengono 300 tonnellate di carbonio per ettaro» aggiunge Valentini. «Quindi, sommando tutti i dati, vuol dire che la sola deforestazione delle zone tropicali contribuisce a più del 20 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, dato paragonabile alle emissioni dovute ai combustibili fossili. Dovrebbe farci riflettere in vista di grandi appuntamenti come il vertice di Copenaghen. Con una buona politica forestale possiamo fare di più, molto di più».
Che cosa fanno i grandi gruppi petroliferi per l’ambiente. Questo è quello che l’Eni, su iniziativa dell’amministratore delegato Paolo Scaroni, dichiara di fare ogni anno.
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